| Quello 
						che state per leggere è il racconto fedele di un fatto 
						di mare realmente accaduto, che rimarrà nella storia 
						della marineria come una maglia di una tragica catena 
						che forse non sarà mai completata. 
						Anche in 
						questo avvenimento sovrasta l’ombra di un cupo destino 
						che chiede spesso le sue vittime sacrificali lasciando 
						poca luce all’indagine della nostra ragione. Il 
						naufragio del “Fusina” è avvenuto al largo di Capo 
						Sandalo, ad un ora e mezza di navigazione da Porto Vesme, 
						scalo marittimo poco lontano da Sant’Antioco, nella 
						Sardegna meridionale. Forse 
						nessuno avrebbe saputo più nulla del “Fusina” se uno 
						solo dell’equipaggio non si fosse miracolosamente 
						salvato. Il 
						mercantile con un carico di minerale, blenda flottante 
						per un totale di 3995 tonnellate, era partito da Porto 
						Vesme per Marghera dove era atteso alla banchina della 
						Montedison, alla quale era destinato il carico. 
						Sappiamo, oggi, che il “Fusina” si trova in fondo al 
						mare a due miglia e mezzo da Punta delle Oche, nella 
						zona di Capo Sandalo, che giace coricato su un fianco e 
						che presenta squarci nella carena, provocati 
						verosimilmente da spuntoni corallini incontrati 
						scivolando sul fondo. Ora 
						veniamo al racconto, cioè alla testimonianza del 
						cameriere Ugo Freguia, unico sopravvissuto. 
			 
						«Quella sera, a bordo c’era allegria. Eravamo tutti 
						contenti essendo prossimi ad iniziare il viaggio di 
						ritorno che ci riportava a casa. Il capitano aveva 
						portato a tavola alcune bottiglie di “Cannonau” che gli 
						erano state offerte dall’Agenzia di Vesme. Si 
						festeggiava l’ultima traversata di Giovanni Nordio che 
						doveva sbarcare a Venezia. Il radiotelegrafista infatti 
						aveva ricevuto la lettera di assunzione da parte della 
						SNAM progetti, che lo aveva destinato alla cabina radio 
						di una piattaforma per le ricerche petrolifere. Inoltre 
						avrebbe dovuto sposarsi, dopo pochi mesi,con una bella 
						ragazza bruna di Chioggia. Insomma passammo tutti una 
						buona serata. Io, 
						dopo cena, feci il mio consueto lavoro di disbrigo e 
						riassetto delle salette e approntai i tavoli per la 
						colazione del mattino seguente. Scesi poi la scaletta 
						che mi portava al ponte inferiore e mi rinchiusi nella 
						mia cabina. Mi rilassai, soddisfatto della giornata, 
						dopotutto il mio lavoro mi piaceva, mi consentiva una 
						certa libertà ed io potevo distribuire nel tempo le mie 
						incombenze, conservando il mio entusiasmo di vivere. 
						Qualche volta, solo, in cabina ricordavo, non senza 
						qualche presunzione, i lazzi a me diretti dagli 
						ufficiali più anziani che mi dicevano bonariamente: 
						“Ugo, possibile che tu non abbia ancora incontrato una 
						graziosa ‘pollastra’ padovana?”. Si 
						parlava spesso in dialetto a bordo, essendo noi per la 
						gran parte veneti. Io, in verità, avevo sempre rifiutato 
						di “agganciarmi” con qualsiasi ragazza, considerando 
						l’estrema gelosia del mio carattere, che non si 
						accordava certo con il mio lavoro di navigante. 
						Quella sera conversai, se così si può dire, con le poche 
						cose che conservavo nella mia intimità, al riparo di 
						curiosità altrui: qualche lettera e qualche fotografia 
						che estraevo dal cassetto della piccola scrivania sotto 
						l’oblò. Pensavo anche ai colleghi della nave. Non 
						c’era uno solo, tra loro, che mi fosse antipatico e 
						pensavo davvero che la nave fosse la mia seconda 
						famiglia. Non 
						mi garbava l’idea che qualcuno fosse in procinto di 
						sbarcare. Alle 
						21 sentii avviarsi i motori principali e il rumore dei 
						verricelli per la manovra.Le vibrazioni delle paratie mi tennero sveglio durante 
						la partenza, poi mi coricai e presto mi assopii.
 
						Accadde tutto alle 22.30, lessi l’ora sulla mia 
						sveglietta. Udii 
						un colpo sordo, come il tonfo di una valanga e venni 
						quasi sbalzato fuori dalla cuccetta. Subito qualcuno 
						entrò nella mia cabina e mi scosse gridando.Era il nostromo Padoan, urlava: “Fora tuti chè stemo 
						andando a pico!”.
 Ripeteva le stesse parole andando avanti e indietro, 
						lungo il corridoio.
 La nave si era talmente sbandata che bisognava 
						aggrapparsi a qualsiasi cosa per non cadere.
 Mi 
						infilai a fatica una maglia e sopra il giubbotto di 
						salvataggio, stringendo forte i lacci sul petto e salii 
						in coperta.Vidi gli alberi inclinati a 45 gradi e la scialuppa più 
						bassa che veniva invasa e sbattuta dal mare infuriato 
						che presto la strappò e se la portò via.
 Il radar continuava a girare sopra la mia testa, il 
						comandante gridava ordini ai marinai che armeggiavano 
						intorno all’altra scialuppa.
 Le onde arrivavano ovunque e ogni impresa pareva 
						impossibile.
 Qualcuno inciampava e cadeva, i fusti dell’olio 
						rotolavano disancorati in coperta, molti erano presi dal 
						panico, avevano perduto il controllo e correvano senza 
						capire.
 Un violentissimo maestrale, con tuoni e lampi, soffiava 
						quasi di prora, verso la costa.
 La 
						nave s’inclinava sempre di più. Il 
						comandante capì che la stavamo perdendo, risalì sul 
						ponte e parlò con il marconista, poi estrasse i razzi di 
						soccorso e li sparò tutti e buttò a mare le polveri 
						fosforescenti.Vidi in alto le fiamme dei razzi che illuminavano il 
						cielo scendendo piano.
 La 
						lancia non si poteva ammainare, le frustate del mare non 
						permettevano ai marinai di lavorare, vidi la paura 
						sbiancare i loro volti. Io 
						rimasi calmo. Forse non mi resi conto del pericolo e la 
						paura non mi paralizzò mai.Guardai la luce verde della boa, i razzi e poi guardai 
						il faro. Mi dissi: - devi arrivare fin là -
 
						Tutta l’attenzione del capitano era rivolta agli sforzi 
						dei marinai intorno alla scialuppa. Qualcuno in precario 
						equilibrio tentò di tagliare le drizze con l’ascia ma le 
						ghie non cedettero perché i colpi risultavano scomposti, 
						inefficaci. La 
						nave ingavonata continuava a sbandare, lo scafo vibrava 
						come fa un morente in agonia, sembrava volere 
						capovolgersi da un momento all’altro. Il comandante 
						intuì che non c’era più tempo, ordinò di buttarsi in 
						mare. Si tuffarono per primi il marinaio Ballarin ed il 
						meccanico Ravalico, io fui il terzo. Mi trovai come un 
						fuscello dentro l’acqua gelida.Rigettai subito, una o due volte. Forse questo m’impedì 
						la congestione che causò la morte di altri.
 
						Appena galleggiai mi dissi: “qui bisogna amministrare 
						bene le forze, a riva ci possiamo arrivare, dista non 
						più di tre miglia e il maestrale ci aiuta”. 
						Conservai la fede sicuro di salvarmi. Cercai di 
						allontanarmi con gli altri il più presto possibile dallo 
						scafo che affondando ci poteva risucchiare. Vicino a me 
						nuotavano almeno quattro uomini, si dibattevano, ogni 
						tanto qualcuno gridava aiuto ma io non potevo far nulla, 
						sentivo una gamba paralizzata dai crampi del gelo e 
						rispondevo: “da’i, state calmi, l’onda ci porta a terra, 
						non agitatevi così vi stancherete, il salvagente ci 
						tiene a galla, a terra ci arriveremo, il vento ci spinge 
						verso la costa”. Loro 
						continuavano a gridare ed a chiamare aiuto.La gamba mi faceva male ma c’era il faro, ogni pochi 
						secondi, quando risalivo sulla cresta dell’onda a darmi 
						speranza; ne scorgevo la luce prima di precipitare nel 
						buco della valle dell’onda.
 Poi 
						non so, nuotai tutta la notte e ad un tratto mi accorsi 
						di non sentire più alcuni miei compagni. Sentivo ormai 
						solo la voce di Ballarin che era il più forte, gli altri 
						non li sentivo più, vidi un salvagente vuoto. 
						Ricordo che ad un tratto il chiarore della luna 
						scomparve e su tutta la zona infuriò una tempesta con 
						lampi e saette e la pioggia. Ero 
						esausto dopo tante ore in acqua, ma sapevo che stavo 
						ormai vicino alla terra. 
						Pensai: - non puoi morire, tua madre ha bisogno di te - 
						e nuotai ancora. Vidi le onde frangersi sugli scogli, 
						sentii che le prime punte delle rocce mi grattavano il 
						salvagente, vidi una secca, cercai di aggrapparmi a 
						qualcosa, fui respinto indietro una volta, due volte. 
						Un’onda più lunga, alta come una montagna mi prese e mi 
						portò in alto e mi sbatté come un sacco sulla spiaggia. Ero 
						vivo, sfinito, “strassà”, ma vivo. Mi 
						abbandonai, avevo fame e vomitavo, avevo bevuto molta 
						acqua. Chiamai i miei compagni a lungo, cercando sulla 
						spiaggia. Non sentii altro che il fragore delle onde 
						sugli scogli. Mi addormentai sotto la roccia più alta, 
						in una zona selvaggia, disabitata. 
						Quando riaprii gli occhi, dolorante, intirizzito, 
						bagnato, vidi, alla luce del giorno, una casa, che seppi 
						dopo appartenere all’ing. Freni, e la raggiunsi carponi. 
						La villa era vuota, entrai dalla porta di servizio, 
						trovai un letto e coperte. Subito mi addormentai e là 
						dormii fino a domenica mattina quando una voce d’uomo, 
						dopo tante ore di vento, mi svegliò. Era Antioco Grosso, 
						un anziano pastore che portava al pascolo il suo gregge. 
						Mi precipitai fuori ad incontrarlo, gli dissi che ero un 
						naufrago e che avevo fame. Lui mi aiutò e mi condusse al 
						Compartimento Marittimo di Carloforte, dove denunciai, 
						con un ritardo di 48 ore il naufragio del “Fusina”. Non 
						sapevo ancora ch’io ero l’unico superstite. Dopo la mia 
						prima relazione al maresciallo Porcu, fui accompagnato 
						all’albergo “Riviera” dove il giorno seguente, il 
						lunedì, il dottor Leone mi visitò e mi trovò in buone 
						condizioni, pur se ancora in stato di shock e di estrema 
						spossatezza». (Sic). A 
						questo punto, il racconto pur frammentario del 
						naufragio, approda ad un fardello di domande che 
						troveranno risposta solo in parte. Le 
						ricerche degli altri 18 componenti dell’equipaggio, 
						considerati dispersi, furono condotte con estrema cura 
						dalla motovedetta C.P. 306, dalla fregata “Andromeda”, 
						dalla fregata “Altair” della Marina Militare, da alcuni 
						elicotteri e da altre unità di Cagliari, dalla Guardia 
						di Finanza, nonché da aerei del Centro di Soccorso di 
						Elmas. Furono 
						presto recuperate le salme del direttore di macchina, 
						del nostromo, del cuoco, dell’operaio meccanico, del 
						marconista e di un marinaio. Il 21 gennaio erano già 
						state recuperate otto salme di cui sei identificate. Nel 
						giorno di giovedì 22 gennaio furono recuperati altri due 
						corpi. Il 
						giorno 23 gennaio in seguito all’esame necroscopico 
						delle salme, il dottor Felice Maurandi, incaricato dal 
						pretore di San Antioco dr. Polo, accertò che ben cinque 
						dei primi otto corpi recuperati, tra i quali Ballarin, 
						erano morti per assideramento, dopo che avevano 
						raggiunto gli scogli dove il mare li aveva sbattuti e 
						dove avevano agonizzato molte ore. Chi non 
						può profondamente turbarsi rileggendo sui giornali le 
						notizie del povero Angelo Barbieri Boscolo? A Carloforte 
						tra le vittime portate a terra dal rimorchiatore 
						“Atleta” vi era quella del mozzo sedicenne. Il ragazzino 
						morto al suo primo imbarco aveva insistito per ottenere 
						l’assenso del padre per partire sul “Fusina”. Il padre 
						che era marinaio non voleva, ma Angelo aveva insistito 
						tanto. «Me lo ha chiesto da uomo - racconta 
						Menotti Barbieri - e io non ho potuto rifiutare». 
						Appena finita la scuola Angelo si era accorto che a casa 
						il bilancio si chiudeva a stento, tra sacrifici e 
						rinunce. Allora si era dato da fare. Dopo il primo mese 
						d’imbarco, Angelo mandò a casa alla madre la busta paga: 
						novantatremila lire c’era scritto in fondo, nella busta 
						ce n’erano invece ottantottomila. «Cinquemila - 
						aveva scritto a matita – le conservo per le mie 
						necessità». Norma Boscolo continuerà a ripetere 
						finché avrà fiato: «Avevo preparato il dolce 
						domenica, aspettavo che mio figlio apparisse sulla porta 
						di casa, invece il mare me lo ha portato via per sempre». Chi non 
						può meditare tristemente sul destino di Giovanni Nordio, 
						il radiotelegrafista? Egli doveva morire a due anni! 
						Durante la guerra, nel 1944, egli stava in braccio alla 
						madre sulla M/n “Giudecca” che si trovava in laguna a 
						Venezia. La motonave venne bombardata da un aereo ed 
						affondò. La madre rimase ferita ma riuscì, nuotando, a 
						portare a riva il bimbo ed a consegnarlo ai soccorritori 
						prima di spirare. Giovanni era al suo ultimo imbarco, 
						aveva in tasca la lettera d’assunzione della SNAM 
						progetti ed il suo matrimonio era ormai prossimo. È 
						davvero insensato parlare di un nero destino? Chi non 
						diventerà muto pensando alla morte di Giuseppe Ballarin 
						che era forte come un toro e abilissimo nuotatore, che 
						aveva fatto per anni il bagnino sulla spiaggia di Jesolo 
						ed aveva portato valido aiuto a molti bagnanti in 
						pericolo? Che 
						dire del vecchio Giordano Voltolina che aveva ripreso il 
						mare per giungere ad impinguare un poco la sua misera 
						pensione? 
						Diciotto uomini sono morti nel naufragio del “Fusina”. 
						Cinque di loro non sono mai stati ritrovati. Per cinque 
						famiglie la preghiera sarà adombrata di attesa, di vuoto 
						e di disperazione. Per la ragione umana perdureranno le 
						appassionate domande, i laceranti perché. Una 
						sola cosa si può considerare miracolosa in questo 
						avvenimento ed è il modo in cui Freguia sia riuscito a 
						salvarsi. Da 
						tutto quanto egli ha narrato e descritto emerge la 
						grande forza d’animo che accompagnò la sua fortuna, se 
						fortuna può chiamarsi l’essere sopravvissuto da solo 
						alla tragedia. Oggi 
						sembra che tutto il dramma che visse quel venerdì notte, 
						sia scorso sopra un grande schermo. Forse 
						egli conserva una cicatrice nel profondo di se stesso, 
						ma non la lascia vedere. Con un corpo sempre solido e 
						tutto muscoli, il sorriso sempre pronto, dimostra senza 
						parole che è felice di essere vivo, anche se non potrà 
						mai dimenticare i suoi compagni del “Fusina”. 
							
								
									| 
										
											
												| 
												
												Nave “FUSINA”Crew members list
 |  
												| 
												
												Comandante | 
												
												Mario Catena | 
												
												52 |  
												| 1° Ufficiale coperta | Giacinto Gimma | 32 |  
												| 2º Ufficiale coperta | Giordano Voltolina | 62 |  
												| Direttore macchina | Giorgio Renier | 31 |  
												| 1º Ufficiale macchina | Erminio Doria | 31 |  
												| 2º Ufficiale macchina | Giacomo Canova | 47 |  
												| Ufficiale Radiotelegrafista | Giovanni Nordio | 27 |  
												| Nostromo | Duilio Padoan | 49 |  
												| Marinaio | Domenico Bonaldo | 36 |  
												| Marinaio | Giuseppe Ballarin | 32 |  
												| Marinaio | Giuseppe de Gennaro | 33 |  
												| Marinaio | Felice Spanio |  |  
												| Mozzo | Angelo Menotti Barbieri | 15 |  
												| Capo fuochista | Sergio Doria | 52 |  
												| Operaio meccanico | Francesco Ravalico | 37 |  
												| Ingrassatore | Nicola Farinola | 24 |  
												| Ingrassatore | Giuliano Scielzo | 24 |  
												| Cuoco | Giovanni Lenzovich | 56 |  
												| Cameriere | Ugo Freguia |  |  |  
						Uno solo 
						si è salvato, cinque corpi non sono mai stati recuperati 
						e riposano in mare. |