A cura di Salvatore Borghero Rodin

     

 

 
 

A cura di Salvatore Borghero Rodin - Racconto a puntate sui principali eventi che hanno dato vita alla grande storia di Carloforte e dell'Isola di San Pietro

Indice generale della rubrica "La grande Storia di Carloforte"

 

Vai alla puntata precedente della rubrica "Storia"

Vai alla puntata successiva della rubrica "Storia"

   

Batteria antinave e antiaerea “Tommaso Zonza”

Quarta parte

I ricordi di Giovanni Rombi

 

La prima volta che vidi la batteria costiera antinave Zonza di Mezzaluna, la seconda guerra mondiale aveva già mandato in rovina tutta l’Europa. Avevo percorso lo stradone, allora bianco e non asfaltato, che passando dal Macchione proseguiva verso Valacca e lo Stagno dei Pescetti e si trasformava in sentiero nella località Buemarino – Giacchino.

Salendo sulla collina di Bellavista, nei pressi della Croce, si percorreva un tratturo che accorciava le distanze e conduceva rapidamente allo Spalmatore. Dall’alto apparve la batteria, con i quattro cannoni da 152 mm. rivolti verso l’orizzonte,quasi volessero bombardare l’isolotto del Toro. I cannoni erano mimetizzati da una rete per impedire l’identificazione da parte dei ricognitori inglesi. Spiccava la torretta dove alloggiava la centrale di tiro e tutti i soldati di vedetta.

Apparvero nitidi i camminamenti e le riservette. Le due mitragliere per la difesa aerea spuntavano dal verde cupo della macchia mediterranea. Il silenzio fu rotto da uno squillo prolungato di tromba e tutti i soldati si riunirono nel piazzale della caserma con la “gavetta” in mano per consumare il pasto. (La gavetta era un recipiente d’alluminio, a sezione ovale, con coperchio e posate: si trasformava in scodella e piatto).

L’estate del 1942, anche allora giunse all’improvviso e con i miei compagni ci riunivamo ogni mattina all’ombra del “Cisternone” per dare inizio al rito dei giochi.

Proprio il primo giorno sentii un assordante rumore proveniente da Via Roma.

Si susseguirono alcuni scoppiettii, poi apparve, avvolto da una nube di vapore, l’autocarro del regio esercito: si fermò in parallelo all’inferriata della prima arcata e il militare alla guida stese una manichetta per riempire d’acqua il grande contenitore metallico sistemato sul piano di carico; poi quell’acqua sarebbe stata trasportata alla batteria Zonza.

L’autocarro con le ruote piene, ormai malandato, era un residuo bellico della guerra 1915-18. Riusciva a funzionare per la bravura dei due soldati che lo guidavano.

Giravo intorno all’autocarro con morbosa curiosità. Nell’Isola di San Pietro solo uno e unico era moderno: quello della miniera di ferro e manganese.

Portato a termine il rifornimento, i due autisti presero una manovella e, infilato l’asse della stessa in un foro posto sotto il radiatore, iniziarono a girarla .Il motore scoppiettò più volte, si mise in moto,tutto l’autocarro sussultò e crepitò, il motore si fermò, mentre una nuvola di vapore uscì dal radiatore.

I militari insistettero e, finalmente, riuscirono a partire. Sull’acciottolato l’autocarro fremette e produsse un infernale rumore di ferraglia.

Voltò in Via Roma seguito da tutto il gruppo di bambini. Urlando come forsennati incitavamo l’autista ad aumentare la velocità. Fu raggiunto il massimo della confusione con grande divertimento dei passanti e dei militari. L’automezzo imbocco Via Mazzini e, giunto sulla strada carreggiata dopo Piazza Pegli, aumentò la velocità scomparendo alla nostra vista in una nuvola di polvere bianca.

Con l’inizio dei bombardamenti, anche a me tocco l’avventura dello “sfollamento”. Nicola, mio padre, rientrò nell’isola per una breve convalescenza di due settimane e decise di trasferirsi per tutto quel periodo nella baracca dell’amico Simone, a breve distanza dalla batteria costiera.

Simone, classe 1899 come mio padre, alto oltre m.1.80, aveva vissuto per alcuni anni a New York assieme a Nicola e ambedue avevano partecipato alla Prima Guerra Mondiale combattendo con coraggio e onore nell’Alto Adriatico contro le potenti basi navali austriache. Avevano un rapporto amichevole e fraterno.

Rientrarono vivi nell’isola di San Pietro perché la sfortuna non fu avversa nei loro confronti.
Non riuscirono mai a digerire l’entrata in guerra dell’Italia contro gli Stati Uniti d’America.

In cucina una enorme pentola di terracotta era pronta per il pranzo, mentre su un muricciolo un folto gruppo di ragazze chiacchierava all’ombra di una tenda. Come un fulmine comparve sul piazzale il tenente Cocuzza; ci fu un bisbiglio fra le ragazze. L’ufficiale entrò rapidamente in cucina e, alzando il coperchio della pentola, esclamò: “Oggi che c’è di buono?”
“Ué! Cocuzza, ma quando arrivano gli Americani ?”. Esclamò Simone. Cocuzza rimase almeno un minuto in silenzio e poi replicò:
“Ma quali americani, qua ‘nisciuno’ viene signor Simone! Gli americani combattono per vedere Napoli. Silenzio, silenzio, il nemico ci ascolta!”. Cocuzza si appoggiò al muro vicino ai fornelli e scoppio in una ironica e prolungata risata. Simone lo apostrofò con una frase americana ; la stessa frase fu esclamata ad alta voce anche da mio padre. Tante volte avevo chiesto a mio padre la traduzione, ma quello faceva orecchie da mercante. Riuscii a tradurla da adulto:“figlio di puttana !”

Il tenente d’artiglieria Cocuzza sarebbe stato un ottimo filosofo - poeta. Vasta cultura, bella presenza, simpatico e cordiale, aveva conquistato il cuore delle ragazze di tutto lo Spalmatore e dintorni. Preferiva l’amore alla guerra, ma in quel particolare momento non poteva dirlo: sarebbe finito nelle patrie galere militari.

Nel pomeriggio, nonostante il caldo d’agosto, Cocuzza ritornò sul piazzale della baracca con gli stivali tirati a lucido dal suo attendente, ma i pantaloni e la camicia erano in condizioni pietose. Il suo attendente circolava con gli zoccoli. I rifornimenti del vestiario erano cessati da qualche anno e la situazione era veramente critica.

Simone si rivolse a mio padre: “Nick, ma questi an da vinse i americoni?” (Nick, ma questi devono battere gli americani?)

Cocuzza che capiva molto bene il tabarchino, rispose con tutta la voce che aveva in gola:
“Scimun, la parola d’ordine è Vincere e Vinceremo”. La risata di Cocuzza fu forte e travolgente e per completare l’opera iniziò a cantare: “Stai luntana da stu core, a te vola stu pensiero…..”. Le ragazze erano tornate in gran numero sul piazzale della baracca: ogni sera lo spettacolo era assicurato. In modo inaspettato la sirena lancio l’allarme e dopo qualche minuto il rombo delle fortezze volanti avvolse tutta l’isola. Gli aerei americani passarono alti sulle nostre teste in direzione nord, verso la Germania. Cocuzza e l’attendente rimasero immobili, così tutti i cento uomini della batteria: sapevano che le fortezze volanti non avevano come obiettivo la Mezzaluna.

Simone porse a mio padre la vecchia chitarra acquistata a New York e iniziarono a cantare: “Valencia, dolce terra che ci afferra con le mille seduzion...”.

Qualche mese dopo le navi americane gettarono le ancore nel Golfo di Palmas, era l’autunno del 1943 e avevo compiuto da poco dieci anni.

I cannoni della batteria Zonza, durante gli oltre quattro anni di guerra, furono silenziosi perché non spararono neanche un colpo. La fortuna arrise ai cento uomini destinati sulla scogliera della Mezzaluna: non guerra, ma caccia, pesca e amore.

Giovanni Rombi

Album fotografico
(un click sulle foto per ingrandirle)

Foto 01
Foto 02
Foto 03
Foto 04

Continua...

Fine quarta ed ultima parte

 

[Torna ad inizio pagina]

Per inviare una e-mail alla redazione di "Storia" clicca qui sotto

 
     

Dal 06.09.2001

 
       

 

 

 

   

Inviare al Webmaster una e-mail con domande o commenti su questo sito web