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    Carloforte, lunedì 07 gennaio 2002
 
Manca molto il contatto umano, ma la solitudine può essere splendida.
 L'ultimo guardiano del faro
Bruno Colaci da trent'anni presidia Capo Sandalo
 
CARLOFORTE Da trent’anni guarda il mare e non si è ancora stancato.
Anzi: da quella finestra del faro che domina Capo Sandalo, Bruno Colaci, il guardiano, scopre ogni volta un’occasione per contemplare la sua perfetta solitudine, accompagnata da quel fascio di luce che significa scogli e terra, pericolo e salvezza.

Nato a San Remo 61 anni fa, aveva il destino segnato: il padre faceva il suo stesso mestiere.
Finito il militare, Bruno partecipa a diversi concorsi, e passa proprio quello per diventare guardiano, o più precisamente «reggente». Come dire: novello atlante che regge da solo il faro.

Colaci lavora in Sardegna, in Puglia, e poi, nel 1972, arriva sull’isola di San Pietro dove conosce la donna che diventerà sua moglie. Dopo una breve parentesi a Genova nel 1982, nella mitica «Lanterna», è di nuovo a San Pietro. I primi anni di lavoro sono i più duri.
Racconta Colaci: «Mancava molto il rapporto umano, dovevamo vivere per mesi dentro il faro, che ospitava tre famiglie al completo». Dentro, c’era tutto il necessario, anche un forno per fare il pane. «Quando i miei due bambini (maschio e femmina) hanno cominciato a frequentare le scuole», continua Bruno, «sono  dovuti rimanere dalla nonna materna». Al faro, le responsabilità erano tante: «si doveva azionare manualmente un meccanismo a molla che garantiva la rotazione della luce, e l’elettricità era fornita da potenti gruppi elettrogeni che dovevano essere mantenuti sempre in perfetta efficienza».

I problemi? Soprattutto con il «generale» inverno: «i fulmini hanno più volte danneggiato lo stabile, per fortuna senza danni alle persone».
E racconta: «Giusto qualche anno fa, la notte di natale, eravamo tutti riuniti davanti al televisore, quando ne è arrivato uno che ha fatto saltare il televisore».

Con l’avvento dell’elettronica, anche il faro si è dovuto aggiornare e, per fortuna, gli impegni si sono ridimensionati, tanto che Colaci ora ha una casa in paese e molto più tempo libero. Peccato non sappia cosa farsene: la sua esistenza è cifrata da quella solitudine che l’ha segnato per trent’anni. Così, anche quando non è necessario, lui rimane molte ore lassù, isolato a più di sette chilometri dal centro abitato.
Si potrebbe azzardare, se mai fosse possibile, che ha assunto il «carattere» del faro.
Alterna lunghi silenzi a poche parole che però ti lasciano dietro una scia di pensieri, un po’ come il faro: si illumina per un attimo e poi tutto ripiomba nel buio.

Come ha fatto Colaci a passare i tempi morti, quando la prima parola che ti viene da dire è noia?
La risposta è, in parte, sul tavolo: qualche libro, e le parole crociate consumate avidamente. A fare compagnia, ogni tanto, una selva di gatti: «aspettano che esci e gli porti il pranzo», e poi, nella più schietta tradizione felina, chi s’è visto s’è visto.
Il resto, tante riflessioni che si perdono nell’immensità della natura, come la vista quando su, in alto, contempla il mare che si fonde nel cielo in un blu interminabile.

Così, giunti sulla vetta del faro, la fatica dei 124 scalini a chiocciola è ripagata dallo spettacolo di una bellezza struggente. Lassù quasi non ci si sente, perché il vento è cosi forte che mugghia come un ossesso e il ventre cavo del cilindro su cui poggia il faro non fa altro che amplificarne il soffio adirato.

Bruno Colaci, quando mostra le stanze dove alloggiavano le famiglie, parla del degrado in cui versa l’edificio, che da quasi un secolo e mezzo deve sopportare l’assalto di vento, pioggia e sale. Le crepe, profonde, lo solcano ovunque, e testimoniano di come il gigante solitario e malato, testardo e orgoglioso resista agli assalti.

E Colaci si lamenta per il suo vecchio amico. Lui che negli anni lo ha sempre accudito, lucidando anche tutti i manovellismi in ottone.
«Proprio l’anno scorso», racconta orgoglioso, «mi sono poggiato per bene e ho tinteggiato tutta la volta della cupola».

Da là sopra, Colaci, vero amante della natura, mostra l’«orrido», uno strapiombo da incubo nelle cui insenature si annida e nidifica il falco della regina, rapace protetto che giunge dal Madagascar: lo si può ammirare mentre vola libero, come l’anima di Colaci.

Lui andrà in pensione nell’ottobre del 2005, poi per il guardiano, non si sa.
Forse, non ci sarà più nessuno ad ammirare e amare, silenziosamente, l’infinito.
 


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Foto di Mariano Froldi e Exil

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